giovedì 28 marzo 2024

Lettura critica di Gabriella Galzio di "BESTIE ANIMALI SPECIE" di Paolo Rabissi nell' "Incontro tra autori" del 19 marzo 2024

 



Abbiamo accolto con piacere (noi del gruppo degli Incontri di autori, ndr) l’ultimo nato di Paolo Rabissi, BESTIE ANIMALI SPECIE, pubblicato con Youcanprint nell’autunno del 2023 (con un’immagine di copertina terrestre e cosmica, a cura dello stesso autore). Un libro, dunque, recentissimo. Ma noi possiamo dire che questo libro l’abbiamo visto nascere, perché ne abbiamo presentato e commentato in anticipazione alcune parti; non solo, è un libro che s’intreccia fortemente con la riflessione condotta da Paolo Rabissi e Franco Romanò nel loro blog sul volto nuovo del genere epico, una riflessione recepita con vivo interesse anche nei nostri “Incontri tra Autori”, poi confluita nell’antologia Nell’oro della quercia, e infine coronata dalla nascente antologia di epica nuova curata dai nostri Rabissi e Romanò. Personalmente sono contenta di questa virtuosa circolarità e lavoro collettivo che si sottrae alle logiche competitive e personalistiche di tante iniziative di poesia cui sfugge il carattere di elaborazione collettiva della teoria letteraria.
E del resto, quest’ultimo di Rabissi, è un libro che ha bisogno di aria, che si apre a un respiro più ampio, non solo perché opera il salto quantico della coscienza di genere e della coscienza di specie dilatando il perimetro della poesia civile; non solo, dunque, perché allarga lo spettro della storia fino a comprendervi la specie, e perché dalla storia si congeda, non solo quella occidentale, ma quella segnatamente patriarcale, ma perché anche sotto il profilo formale prende il largo dal Rabissi più breve e conciso, cui il suo stile asciutto e sobrio ci aveva abituato fino a I contorni delle cose (del 2010), che pure già contiene qualche testo prosastico che evoca Sereni, dove, pur nella naturalezza dei ritmi, già cade la necessità del verso. Eravamo nel 2010, sono passati dunque tredici anni, e da allora Rabissi ne ha fatta di strada e, appunto, ha cominciato a prendere il largo, ha preso a narrare, alla ricerca di verità, e poi a conversare in forma di metaloghi, dietro cui si cela con pacata ironia la sua tensione etica: che fare delle complicazioni umane su ciò che è “la morale, il bello, il giusto”?; quegli stessi metaloghi che ritroveremo nella annunciata antologia di epica nuova, laboratorio di poesia critica, segno che stile dello scrittore e paradigmi del pensatore, scrittura e metascrittura, procedono di pari passo - come si suol dire - con continui rimandi interni alla sua opera. Un’opera, dunque, fortemente dialogica e relazionale, come emerge dai testi, vedi il magnifico dialogo sulla bellezza con Albert Einstein – "Bello il tuo Universo..." ripetuto per anafora – cui fa da sfondo Giordano Bruno; e come dimostrano l’intenso dialogo teorico intrattenuto con Romanò o l’intensa relazione di confronto col genere altro da sé che da una vita lo lega alla sua compagna, alla quale sarei tentata di dire: brava, hai fatto un buon lavoro! Ma tornando allo stile, questo è un libro che prende il largo fino a sfidare lo stesso limite tra righe e versi, in cui la sperimentazione, e forse persino l’attrattiva ludica della sperimentazione, mettono a repentaglio l’identità stessa della poesia (di cui parla Francesco Macciò)(nel medesimo incontro, ndr), quando le righe sembrano prendere il sopravvento sui versi. E del rischio che corre, del resto, Rabissi è ben consapevole, come attestano i suoi stessi versi in una dichiarazione di poetica: “Ci vuole coraggio per fare di una riga un verso/ accendere parole senza incendiarle…”. Un libro, dunque, che sia per contenuti, sia per aspetti formali, inclina verso momenti di discontinuità e di messa in discussione della tradizione. Il che trova conferma nello stesso dire e dirsi dell’autore: “Sono figlio di quel Novecento che ha mandato tutto a gambe all'aria e che di 'soggetti imprevisti' oltre al femminismo (quello radicale, di liberazione) ce ne ha sfornati tanti altri. La rottura, per me irrinunciabile, tra generi, categorie, paradigmi ecc, avvenuta nel mondo dell'arte come nel sociale e nel politico ecc., a partire dai primi decenni del '900, ha chiesto e tuttora chiede di tentare ritmi nuovi, di provarci. Per cui, lontano dal recupero di ogni tradizione se non rivisitata alla luce criticissima del presente e del suo più alto livello di autocoscienza, brancolo a tentoni ma senza la voglia di definizioni nuove e categoriche (il centro di gravità permanente della canzone). Insomma, voglio dire che tra prosa e poesia c'è meno distinzione di quanta mai in generale ce ne sia stata. Con buona pace di chi vorrebbe restaurare la tradizione tout court. Io ho però un punto di riferimento ed è la mia tendenza alla narrazione. Narro anche in poesia. Non rinuncerei mai a scrivere in righe, come ho fatto, la rivolta dei ciompi nel '300. Né rinuncerei mai a scrivere in versi (quei versi così lunghi che cercano a fatica ritmi nuovi, anche se la musica jazz e la dodecafonica ecc. mi risuonano dentro insieme ai ritmi della musica lirica: mio padre era un tenore lirico!) episodi della mia infanzia o del me adulto innamorato.”  Sin qui le parole notturne del nostro autore.

E ora proviamo ad illuminare più da vicino questi aspetti emersi dal libro di Rabissi.
E per far questo cogliamo il suggerimento di Romanò dato nella prefazione – partiamo dal “montaggio”, ovvero dalla struttura del libro, laddove la misura aurea del respiro poematico di Rabissi è data dal poemetto. In tutto, il libro consta di sette parti, e in ognuna di queste parti, le poesie portano ciascuna un titolo, tale da assegnare piena autonomia al singolo testo; ciò nonostante, l’andamento poematico della versificazione chiama a inanellare le singole poesie in un unico poemetto; per cui avremmo sette parti tendenti al loro interno al poemetto. A loro volta queste parti, una dopo l’altra, suggeriscono una sorta di suite in movimento, sicuramente in transito e in divenire, se non in fuga - osservate i titoli che attraversano l’intero libro: “Lucy... Transizione all’umano”, “Premondi”, “Movimenti in fuga”, “Movimenti di strada”, “Movimenti-metaloghi”…qui niente ha stabile dimora, tutto è provvisorio, sta per divenire, o prossimo a fuggire.
Ora, in questo movimento che attraversa il libro, l’attacco è saldamente affidato ai versi, che sin dall’inizio avanzano sovrani, anche con incedere epico, fino a un punto di snodo in cui cominciano a prevalere le righe, a dire il vero con una prima incrinatura della versificazione già nella seconda parte del libro a fare da avvisaglia; per approdare poi definitivamente alla prosa dell’ultima parte con i “Movimenti-metaloghi” che si richiamano alle leopardiane Operette morali (detto per inciso, Leopardi è l’omega del libro, così come ne è anche l’alfa con riferimento allo Zibaldone). Dicevamo, punto di snodo tra poesia e prosa sembra essere l’esperienza americana – il suo viaggio in Arizona, Tucson - i cui esiti di scrittura vanno a comporre un primo nucleo - “Minidiario da Tucson” - che ritroviamo oggi nella Parte sesta, sotto il titolo “Diario di Occidente”; e forse non è un caso, perché a Tucson qualcosa sembra aver mutato la poetica di Rabissi; di conseguenza, la poesia si fa più colloquiale, più easy nel parlato, quasi più documentaristica, in presa diretta. In questi testi, composti da righe, mi è sorta insistente la domanda: poesia o prosa? È il caso esemplare di “Jumping cholla”. Ho provato a leggerla come poesia, e ho sentito una sorta di versificazione fratturata, una scrittura sincopata da enjambement che fratturano il verso, lasciandosi dietro un frammento, seguito da un verso lunghissimo, come si può evincere anche graficamente. Ma francamente ho avvertito una forzatura. Se, invece, ripristinavo la prosa di “Minidiario da Tucson” ricevuta da Rabissi nel febbraio del 2021, la scrittura tornava a fluire anche graficamente. Allora la domanda è: perché Rabissi ha impresso questa frattura nel testo? Per me Rabissi è giunto in un’area di sperimentazione … quanto risolta, lascerei che sia lui a risponderci.
E veniamo all’epica nuova di Rabissi. E prendiamo, esemplare, la Parte quarta, dal titolo “Movimenti di strada”, che ha una sua dimensione poematica unitaria omogenea. Qui l’Io poetico si pone al di là del “noi”, del “nostro” della specie umana, si pone dalla parte degli orsi, delle faine, rivelando di aver già da tempo compiuto la sua rivoluzione copernicana, di essersi decentrato rispetto all’umano. Così come si è decentrato rispetto al suo genere: “Che la rivoluzione fosse una questione tra uomini/ questo fu subito chiaro.” Per inciso, di queste inversioni che danno risalto all’oggetto della riflessione, ve ne sono più d’una, cosicché l’anastrofe si configura quale vero e proprio tratto stilistico. Coscienza di genere (maschile e non neutro) nella rivoluzione, e consapevolezza della non neutralità delle macchine, avanzano di pari passo, e la concorrenza con cyborg serventi contende alla giovane operaia l’ultimo gradino nella scala dei costi. È qui che incontriamo l’epica nuova di Rabissi, libera, irregolare, ma dove abbondano i ritmi dattilici. In un verso epico, compiuto dal punto di vista metrico, è qui sintetizzata l’angusta condizione del lavoro servile: “fabbriche morte deserti affanni di uomini e donne” (che ritmicamente ricorda l’esametro dattilico, composto da 5 dattili + 1 trocheo), a fronte della quale il lavoro animale offre ben altra visione di grazia: “Che perfezione fanno le ibis rosse…”.
In sintesi il lavoro in progress di Paolo Rabissi offre un esempio di quel confronto tra continuità e discontinuità con la tradizione che ci riguarda e ci invita al dibattito sul rapporto tra epica nuova ed epica classica, tra poesia e prosa, tra righe e versi, se possibile fino al superamento delle antinomie; ciò che vogliamo, in fondo, è stringere un patto rinnovato con la scrittura e portarlo a un grado più alto, insieme.

                                                                                                                                                                                

 Nota: l'incontro tra autori è visibile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=gc7-4gwMyyo

 






Ma perché Graeber e Wengrow si sono messi a studiare vicende umane di quarantamila anni fa? (seconda puntata)

 Cioè in sostanza essendo il furto di lavoro alla base del sistema capitalistico ne viene che questo sistema è un sistema di ladri. Questo comporta un cortocircuito tra economia e etica. Il giudizio etico torna a imporsi nel terzo millennio d.c. Altro che ripararsi dietro l'ormai secolare 'non si danno giudizi moralistici' sull'economia. Da cui segue che l'economia avrebbe le sue leggi autonome indipendenti dalla morale. E di conseguenza anche la politica, ma lì la morale non esiste dal tempo di Machiavelli, non perché lui ne l'abbia tolta ma perché, ci dice, a andare a vedere come funziona la politica essa funziona bene solo se non tieni conto della morale.

Ma perché Graeber e Wengrow si sono messi a studiare vicende umane di quarantamila anni fa? Semplice a dirsi ma non è cha la risposta sia poi così complessa, lo hanno fatto perché pensavano di poter dimostrare che il sistema capitalistico non è l'unico sistema possibile di convivenza umana né che per forza un sistema di organizzazione sociale debba essere basato sul furto.

I due insomma vogliono quanto meno fare presente che l'attuale sistema mondiale dominato dall'economia capitalistica non è davvero l'unica soluzione veramente possibile per organizzare il pianeta. In realtà non si attardano a rilevare come questo sistema sembra minato dall'interno dalla cattiva manutenzione del pianeta, dalla proliferazione di guerre a bassa intensità ma a alta ferocia, dall'incapacità di agire per il bene comune.

Essi rovesciano l'assunto e spingendosi fin là dove possono arrivare i sofisticati strumenti di indagine antropologica, cioè alle soglie della civiltà, dimostrano che no quello che viviamo non è il destino finale del mondo perché l'umanità ha mostrato di poter organizzarsi in  maniera diversa dall'attuale e che ciò dipende da scelte precise.

lunedì 30 ottobre 2023

Macchine, proprietà privata e "L'alba di tutto" di Graeber e Wengrow (prima parte).

 




A rileggere di Graeber L'alba di tutto mi torna alla mente una fantasia giovanilissima ma non propriamente infantile nella quale immaginavo un ideale di vita da adulto in una casa isolata in un bosco con una compagna (forse dei figli) dalla quale mi allontanavo per andare a caccia. Verosimilmente poi, ma la fantasia in realtà non andava molto oltre, aiutato da lei avrei lavorato per la manutenzione della casa e dei dintorni. Altrettanto verosimilmente lei avrebbe adattato a orto pezzi di terra vicini curando sementi e selezionando erbe, dimodoché a un mio ritorno a mani vuote avrebbe lei messo comunque qualcosa in tavola, tanto più se nell'orto scorrevano galline e più in là qualche pecora o una mucca, un quadro inevitabilmente abitato anche da un cane.

Certo si trattava di una fantasia che sarebbe stata comunque alimentata poderosamente da tante letture di libri per ragazzi e poi dalle fattorie del far west statunitense e così via. Ma sul come mi era nata inutile tentare ipotesi. Quello che richiama la mia attenzione è che non immaginavo una vita da lupo solitario e che la famiglia era decisamente nel mio orizzonte. Con già intravista una divisione del lavoro, quella che dall'alba dei tempi si sarebbe codificata in una divisione di genere dei ruoli.

Ma dove stava la vita di relazione in quella fantasia? parenti? aggregazioni intorno alla famiglia per solidarietà e interessi? Comunità di intenti? 

Da dove mi proveniva l'idea di una famiglia ristrettissima al margine di una società complessa qual era comunque già l'Italia della mia infanzia? Metto per forza di cose sul conto una prima reazione alla mia disastrata famiglia, fallimentare sotto ogni aspetto. Però quella recinzione così angusta della 'casa'  che avevo in mente denunciava come paura per una vita di relazione allargata.

A  leggere Graeber viene in mente che quella mia visione non era altro che la visione dell'inizio della società civile. Inizia da lì la nostra civiltà, dai cacciatori, raccoglitori, allevatori di bestie e semenze. Per me si trattava evidentemente a differenza forse di altri di cominciare dall'alba di tutto la mia storia abbandonando  quella fallimentare nella quale allora vivevo.

Nella mia fantasia che posto aveva la proprietà privata? E, diventato adulto, che posto aveva? Non avendo in quell'età altro che quattro spiccioli in tasca, quelli del mio lavoro precario di allora, quello della proprietà privata non era un problema, semmai era qualcosa che avevo alle spalle e intorno a me, comunque non era un mio fine. Anzi, per una tendenza all'anarchia, ero sensibile alle proposte culturali e politiche che la mettessero in discussione come fonte di mali più che di benessere. La scoperta di Marx e dei movimenti rivoluzionari di mezzo mondo mi indicarono una strada che sarebbe stata senza ritorno soprattutto perché il mio bisogno di relazioni incontrò prima la contestazione generale studentesca e quasi contemporaneamente il fiume in grossa delle lotte operaie. Un insieme tendenzialmente rivoluzionario che aveva proprio come obiettivo quello di inceppare magari definitivamente il processo di accumulazione della ricchezza privata che nasceva con lo sfruttamento del lavoro dentro le fabbriche e nelle case. Un'equazione semplice e entusiasmante. La cui dimostrazione era in corso per le strade.

Milano agli inizi degli anni sessanta era attraversata in lungo e largo da masse di operai e di studenti in lotta. Ma per cosa? Gli studenti contro l'autoritarismo dei baroni universitari soprattutto, che nascondeva sotto traccia la loro collusione con i poteri finanziari e il loro ordine in sostanza ancora fascista. La classe operaia contro l'organizzazione generale dello sfruttamento del lavoro.

Interrogavo ovviamente costoro perlopiù. E l'accento svelava sempre molto di più di quanto capissi. "Non è solo la fatica di tenere le mani alzate alla catena di montaggio che scorre sulla tua testa. Ti ci abitui, anche se a sera hai la schiena spezzata in due che non basta una notte. Quello a cui non mi abituerò mai è che mi rubano lavoro, e io quasi non me ne accorgo. Alla fine della scorsa settimana i pezzi lavorati erano tot. Da questo lunedì i pezzi erano tot più tre. Come è possibile? In maniera che sul momento non te ne accorgi la velocità della catena era aumentata, tu lavori nelle stesse ore alla catena più pezzi e quasi non te ne accorgi. E semmai ti dicono che è stato un caso. Che poi però diventa normalità. Perché la macchina ha ormai incorporato i nuovi ritmi e tu ti ci devi abituare. In più i compagni vicini che avevano cominciato a accorgersi della faccenda non li vedi più perché sono stati spostati."

In realtà ciò bastava per lasciarsi alle spalle ogni discorso più o meno filosofico o ideologico sulla proprietà privata. L'accumulo di potenza e ricchezza da parte di alcuni - gente in gamba, di grande intelligenza e iniziativa, ma avente senza dubbi all'interno anche molte persone stupide e incompetenti oltre che prepotenti e violenti - appariva visibilmente legato alla proprietà delle macchine, al possesso delle nuove tecnologie, capaci di imporre all'infinito un meccanismo di riproduzione del profitto avendo alla base l'intensificazione della giornata lavorativa pagata sempre meno. Per dare inizio a un processo lavorativo, sui cui prodotti si innestava via via un intervento sempre più complesso e sofisticato e quindi pagato di più, bastava infatti un lavoro povero di manualità e competenza che meritava solo un salario minimo. Gli esiti di un sistema così organizzato sono visibilissimi oggi dopo che, alla classe operaia di base, intelligenza dei meccanismi lavorativi e capacità di iniziativa sono state tolte. Almeno sino  ad oggi.

Gli operai e le operaie con le quali mi sono mescolato avevano allora le idee chiare. Non si trattava di discutere ulteriormente se la proprietà privata fosse o meno un furto, a essere rubato era sicuramente il lavoro, si trattava di inceppare con le lotte quel meccanismo. Che portava, grazie alle macchine (quelle sì indiscutibilmente proprietà privata) e al loro uso necessariamente all'impoverimento, allo svilimento del lavoro della gran massa alla base della produzione e della produttività. Quegli operai e quelle operaie si trovarono ad essere un soggetto rivoluzionario perché avevano capito e denunciato il meccanismo su cui si basava l'intero sistema. Quel sistema in seguito non si sarebbe lasciato sorprendere più così facilmente, almeno nel nostro paese dove intelligenza e furbizia da predoni e ladri sono da sempre più efficienti che altrove.

Quel ciclo di lotte, sconfitto alla fine da più fattori, ha lasciato memoria di un'alternativa al sistema che oggi sembra inarrestabile? E poi, seguendo il lavoro di Graeber, quelle lotte hanno riaperto la questione se sia possibile una soluzione diversa da quella che, all'insegna della proprietà privata dei mezzi di produzione, ci appare sempre più una strada destinata a distruggere le forme di civiltà più intelligenti e creative del pianeta?

martedì 13 giugno 2023

Mettere accanto in una ricerca Kafka, Beaudelaire, Benjamin, Leopardi...

 



Mettere accanto in una ricerca Kafka, Beaudelaire, Benjamin, Leopardi e quanto di rilevante di opere e pensiero era possibile connettere con loro, è stata un'esperienza 'letteraria', dove le virgolette vogliono indicare quel mondo della fantasia e dell'immaginazione di cui poesia e arte sono padrone, ricca e suggestiva ma infine muta per il presente. E il perché non è nemmeno semplice. Ricchezza e suggestione provengono da certe loro affinità che ancora sorprendono, ma in definitiva ciò che li accomuna era chiaro anche prima, intendo la radicalità della critica al loro presente. Che si può riarticolare e ripresentare ma si tratta in definitiva di deja entendu che per se stesso non mi stimola a scrivere. Troppo vuoto sento l'uditorio in questo camminare desolato sulle macerie della sinistra, spazzata via dal berlusconismo che ha invece liberato tutto il fascismo residuo nonché nuove energie reazionarie e oscurantiste del paese a sostegno del pensiero unico dell'Occidente.

Peraltro appunto credo che la galleria di 'affini' a codesti autori potrebbe essere allargata di molto pescando tra '800 e primo '900. A prima vista sembrerebbe che Benjamin sia quello meno connesso agli altri citati, in realtà le sue posizioni di materialista storico e in qualche modo di marxista eretico sfociano in una tensione letteraria appassionata e poetica fino al limite della visionarietà - basti qui l'angelo sospinto verso il futuro da una tremenda bufera che rappresenta il progresso e la modernità già ricchi delle macerie del passato e la speranza di una 'piccola porta' per la rivoluzione - che lo allacciano al criticismo radicale degli autori citati sopra.
E tuttavia la ricerca mi ha fatto sì ritrovare tutte le forme del pensiero critico radicale ma mi ha posto di nuovo quelle domande estreme alle quali non so rispondere da dentro l'età in cui vivo. Avevano ragione loro, insieme a molti altri. Avevano ragione a dirci che l'Occidente stava e sta precipitando in  rovina. Perché chi vuole tentare di starci dentro deve far finta di vivere in un mondo di simboli fantastici reggendo fin che può alla propria ipocrisia, dice Beaudelaire. Perché chi vuole starci dentro deve adattarsi alla condanna in un mondo assurdo in cui è meglio cercare forme di vita diversa da quella umana, dice Kafka. Perché chi vuole starci dentro deve adattarsi al trionfo dell'ideologia dell'utile che uccide immaginazione e poesia, dice Leopardi.
L'hanno detto così in tanti che a me oggi pesa come un macigno e inutile continuare a dirlo. La critica radicale è ancora attestata nei cuori e nelle menti di molti/e ma sento forti le voci di chi le macerie non le vede e presta un'altra volta volentieri le orecchie alle 'magnifiche sorti e progressive' dell'Occidente, alla micidiale riproducibilità tecnologica, per usare Benjamin, di guerre  a bassa o media intensità, dello sfruttamento dei poveri nei lavori poveri, dei femminicidi, delle morti sul lavoro. Nell'impoverimento finale di quelle che erano le risorse pubbliche del pianeta Terra.

sabato 13 maggio 2023

Poesie civili, poesie politiche, poesie di epica nuova



                                                     la volta a crociera, una rivoluzione che dura
 

Da insegnante ho evitato di parlare di poesia civile. L’espressione, con la quale peraltro sono cresciuto dentro il liceo classico, dopo la critica a volte sin troppo radicale dal ’68 in avanti, aveva finito con l’evidenziare una sua mascherata connotazione ideologica. Era un modo tartufesco per evitare di usare l’espressione ‘poesia politica’. Tuttora, nonostante il ’68 o forse proprio per questo, sostantivo e aggettivo non abitano affatto insieme. Trascuro ora la totale irrilevanza della poesia in generale, vero è piuttosto che se ad essa accostiamo il termine ‘politica’ si storcono i nasi dei più.  Eppure da sempre esiste una poesia politica. Ma preferiamo chiamare anche Le ceneri di Gramsci un poemetto di poesia civile. E anche quello di Giuseppe Giusti ‘Sant’Ambrogio’. E il tono satirico di Montale in ‘Satura’ contro la società dei consumi non ha forse un passo da engagé?


Ciò che poi quella parola porta con sé appesantisce di molto. Porta con sé ‘partiti’ e ‘ideologia’. Ed è del tutto inutile sperare che ‘politica’ venga intesa solo come ciò che riguarda la polis, la collettività.

Lungi dall’essere innocente, la parola ‘civile’ nasconde ideologia e partiti. Giusti e Montale erano entrambi liberali e avevano entrambi un partito a cui riferirsi, a distanza di un secolo. Quanta ideologia stia dentro il neoliberismo attuale non mette conto parlarne qui.

Così ecco che, apparentemente lontano da partiti e ideologie, nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, salta fuori il ‘poeta vate’, che, col ruolo di maestro e guida, celebra invece proprio valori e ideali politici, così Carducci, Pascoli, D’Annunzio sono annoverati tutti tra i poeti civili.

A voler andare indietro si dovrebbero rivisitare alla luce di queste considerazioni decine di poeti: da Parini ad Alfieri, da Foscolo a Manzoni e via dicendo. Per quanto riguarda l'oggi valga, per quello che vale, la mia esperienza: un noto poeta col quale anni fa presentavo una mia raccolta, accolse i miei versi così: '...insomma sarebbe come se tu che sei studioso di Storia scrivessi versi di natura storica...'! La Storia si sa è tangente alla politica. Se poi tu sei di sinistra... Perché in effetti nel nostro paese in poesia parlare di un io collettivo fa molto sinistra... se non comunista.

Uno degli intenti che hanno animato me e Franco Romanò nell’avviare dieci anni fa il progetto che abbiamo chiamato ‘Di Epica nuova’, ormai giunto a termine, ( si può vedere cliccando qui) era quello di recuperare all’attenzione un genere di poesia che accanto alla creativa riflessione psicologica, filosofica, morale di natura individuale e intima più tipica della poesia lirica trovasse spazio quella storica, sociale, antropologica, sinanco scientifica, cioè in definitiva civile e politica.

C’entra la poesia epica? Non quella nota. Né quella di Omero, né quella di Ariosto, né quella degli eroi galattici. L’eccezione, inutile dirlo è Dante, maestro di epica lirica. Ma tutto il resto è un mondo arcaico. Anche se è vero che le propaggini, e non solo propriamente quelle, del mondo patriarcale antico arrivano fino a noi.

Zeus fulmina gl’infedeli e stupra ogni giovinetto e giovinetta che incontra, mentre Giunone, votata alla fedeltà, si vendica appena può sugli/lle amanti e figl* di lui. Una normale vita di famiglia patriarcale divina, da cui discendono noti effetti tra umani: sistemi appassionati di competizione, guerre, distruzione, fino al totale consumo dei viventi e dell’inorganico. Il tutto oggi sotto le regole di ferro del neocapitalismo liberale all’insegna di servitù e signorie.

In questo quadro per molti versi drammatico, nel quale le poesie si mettono tra loro in febbrile ricerca di una precisa identità, noi ci collochiamo, verosimilmente, per usare un’espressione di Pier Giorgio Bellocchio, ‘al di sotto della mischia’. Un po’ anche per evitare quello che Walter Benjamin chiama il ‘chiacchiericcio sulle cose vere’ di cui i social sono piuttosto responsabili.

Al di sotto dunque dei generi poetici (coi loro presunti canoni) e anche della parola non sessuata (il maschile considerato neutro universale), ma con ragioni buone: a noi sembra infatti che comunque poesie e autori e autrici e pubblico delle poesie stanno mutando, stanno trasformando toni e accordi, fiati e archi, modanature e nodi, chiavi di volta e perni e nessi in molteplici stringhe di mondi paralleli per ora poco visibili.

giovedì 4 maggio 2023

Blues, labrador nocciola



Blues, labrador nocciola


Su quel prato gigantesco a duemila metri

tenevo tra le dita un fiore senza averlo colto

eppure ti chiedevo delle tue radici, dell'acqua

da cui proveniamo.

Tu per risposta annusavi l'aria sottile,

disperdevi lo sguardo intorno, sulla catena

di Dolomiti che avevamo per sfondo,

con le malghe incassate nei fianchi.


Il tuo interesse era lì,

in quel profondo orizzontale, quello sterminato

spazio di valli che avresti esplorato volentieri

con me, anche se la vita non bastava.

Sì, avevi ragione anche su questo,

le radici stanno sugli orizzonti

e l'esplorazione non finisce mai.

venerdì 10 marzo 2023

Golfo mancato porto fantasma (Cutro, febbraio 2023)



Golfo mancato porto fantasma

sembra dire l’osceno è qui 

golfo di pietà mancato

liquido del nulla decomposto

ossi di mare plasticati

aggrediti da molluschi, 

spugne e alghe, enzimi per le

biotecnologie.


sembra dire l’osceno è qui 

golfo di intrusioni

di specie, minerali e sali

varchi di molle spessore colorato

acqua di radici e polpe scolate

fino ai fondali remoti


sembra dire l’osceno  è qui

golfo mancato, porto fantasma

varco di lingue insepolte

liquidi sversati plasma e linfa,

un poco di vento grazioso

allinea resti e impronte, accarezza

la spuma, la dispone in frange di coltre

venerdì 24 febbraio 2023

La guerra e il 'coro di morti' di Leopardi nel 'Dialogo di F. Ruysch con le sue mummie'



 Se c'è qualcosa di ben evidente nella guerra in Ucraina è il numero dei morti. Tanti morti. Civili e soldati. Uomini e donne, adulti/e e bambini/e. Di una parte e dell'altra. Una coltre nera ricopre centinaia, migliaia di morti in quella terra. Nera è la morte in guerra, nero è il colore del lutto dei vivi. La morte incolore è nera sui campi di battaglia. Il nulla della morte è incolore prima dei massacri e delle distruzioni. Quando le bombe strappano i corpi in tanti pezzi, allora il nulla sembra voler rivestire i colori di una giustizia, di una vendetta, come se i morti rientrando dal nulla potessero sostare almeno un poco ancora per risarcirsi. Il nero della coltre distesasi oltremodo in falde sempre più larghe marca troppo di colore, di odore, di rumore quella terra con la sua guerra, così non c'è sosta possibile fuori dal nulla incolore, inodore, insonoro, intangibile e i morti rientrano nel nulla.

Non possiamo fare a meno di parlare dei morti, dice l'amico poeta, del resto facciamo poco d'altro, righe e versi sono ricchissimi da sempre di colloqui con i morti. 

E di morti parla il volume di versi presentato recentemente nel 'salotto' di Gabriella Galzio (e qui visibile video) intitolato Il tempo dei morti di Alessandro Carrera. Un testo poliedrico di ricche ispirazioni in cui accanto a invenzioni di una certa teatralità parlano morti che richiamano vicende biografiche dell'autore. Un testo per me spiazzante che richiede attenzione. 

Risarcire tutti i morti della guerra presente. Che restino nel nulla dal quale si sono sporti per un tempo di vita molto breve. E noi che leggiamo e scriviamo righe e versi per i morti continueremo a contare sui vivi.  Sulla vita di meraviglie e mistero.

'Cosa arcana e stupenda/ oggi è la vita al pensier nostro, e tale/ qual de' vivi al pensiero/ l'ignota morte appar...', sono tre versi di Leopardi tratti da 'Il coro dei morti' che apre l'operetta morale Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, pressocché sconosciuto perché del poeta filosofo materialista si preferisce parlare d'altro. Lo trascrivo:

”Coro di morti”

Sola nel mondo eterna, a cui si volve

ogni creata  cosa,

in te, morte, si posa

nostra ignuda natura;

lieta no ma sicura

dall'antico dolor. Profonda notte

nella confusa mente

il pensier grave oscura;

alla speme, al desio, l'arido spirto

lena mancar si sente:

così d'affanno e di temenza è sciolto,

e l'età vote e lente

senza tedio consuma.

Vivemmo: e qual di paurosa larva,

e di sudato sogno,

a lattante fanciullo erra nell'alma

confusa ricordanza:

tal memoria n'avanza

del viver nostro: ma da tema è lunge

il rimembrar. Che fummo?

Che fu quel punto acerbo

che di vita ebbe nome?

Cosa arcana e stupenda

oggi è la vita al pensier nostro, e tale

qual de' vivi al pensiero

l'ignota morte appar. Come da morte

vivendo rifuggia, così rifugge

dalla fiamma vitale

nostra ignuda natura;

lieta no ma sicura,

però ch'esser beato

nega ai mortali e nega a' morti il fato.

Al termine del dialogo, nel quale i morti, rinati per solo un quarto d'ora, invitano Ruysch a fare loro delle domande, Ruysch pone un'ultima domanda: 'Quando e come vi siete accorti che eravate morti?' Alla domanda segue solo il silenzio.

lunedì 13 febbraio 2023

Premondi

Ecco, tic tac orologio in ascolto

rumori di chiacchiere sghembe

mani e orecchie incrociate

in pieghi di libri, prezzemoli

e schiocchi di ali nell’ora di pagine 

fogli e quaderni

schiaffo sospiro sospiro di riso

e di lingua s’afferrano al polso

che pulsa, tic tac orologio

ascolto del mondo, premondo di Tea.

martedì 17 gennaio 2023

Gli spazi bianchi della storia.



Il poeta non ha ormai esitazioni nel tempo presente a lasciare dei 'vuoti' nel verso, sa significarli bene. Lo storico non amerebbe mai invece lasciare dei vuoti, dei blanks, invece purtroppo è spesso costretto a farlo, basta pensare alla ricostruzione della storia della mafia. Walter Benjamin consigliava l'inclusione di "spazi bianchi' nella scrittura della storia a mo' di rappresentazione di ciò che ancora non si sa.

Ma anche un poeta: nei suoi Cantos Ezra Pound cita Confucio (Kung) sulla responsabilità dello storico - per il benessere della società - di lasciare lacune nel resoconto della storia. Da Selected Cantos (New York, New Directions, 1970), p. 22: And Kung said " Wan ruled with moderation, / In his day the State was well kept, / And even I can 
remember / A day when the historians left blanks in their writings, / I mean for things they didn't know, / But that time seems to be passing».

martedì 10 gennaio 2023

Il flobert puntato al volo di uccelli


 Il flobert puntato al volo di uccelli, la marina poco distante rumorosa. E’ indubbio che voleva uccidere. Consumò mezza scatola dei piombini con cui caricava, chissà dove finivano. Non senti il grido lungo degli uccelli che non si curavano per niente di lui, l’aria aggrovigliata fittamente da ali nere.

E voleva senz’altro uccidere, e uccideva, la lucertola che lo fissava dalla fessura aperta tra due blocchi di tufo nella casa. La testa nella poltiglia di carne e sangue, la coda recisa dal piombino si contorceva. Lui faceva le corna, dicevano che quella coda semovente portava sfortuna.

Dal letto dove ormai da mesi viveva, spurgando da una cannula nel ventre, il vecchio lo aveva addestrato. Gli contava i piombini, gli ordinava di non uscire di casa col fucile. Che giocasse nell’orto dietro casa.

Ci giocava nell’orto, per ore. La tentazione era di fucilare l’unica gallina. Ma distoglieva lo sguardo.

La morte incombeva sulla casa. Sentiva una smania, di gridare, di menare le mani. Quella era rabbia, la conteneva più di quanto pensasse.

Il vecchio moriva, senza nessuno spasimo, aveva un’aria delusa.

Tornò sulla marina e nel campo da dove aveva mirato agli uccelli si sedette. Passò il resto della giornata ad ascoltare i loro gridi.

giovedì 5 gennaio 2023

"Chi può conoscere i limiti della possibilità?" (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri)


 

Ogni volta che m'imbatto nella presunta 'chiaroveggenza' dei poeti mi assale un prurito allergico, non perché in fondo non si possa 'addebitare' qualcosa del genere a certi poeti ma perché subito qualcuno ne approfitta per affondare la poesia di costoro in aspetti del folclore spiritualista, animista, trascendentalista e quant'altro.

Nel caso di Leopardi poi, che qualche motivo molto più di altri di essere 'accusato' di chiaroveggenza ce l'ha davvero, le cose si complicano. Perché del pensatore moderno italiano più materialista si finisce con l'assumere le sue riflessioni all'interno della nota visione pessimistica dell'esistenza che gli fa vedere tutto nero, inconciliabile con la sua sofferenza personale, i malanni, ecc.

La critica letteraria, sin dalla seconda metà del secolo scorso, ha messo le cose abbastanza a posto, ma finché ho insegnato nelle superiori milanesi rarissime erano le storie della letteratura che accoglievano questa lettura. Come stiano oggi le cose non lo so, ma presto con i nipoti che arrivano al liceo, avrò informazioni di prima mano.

E dunque sì, Leopardi un po' chiaroveggente lo era. La critica negativa al suo tempo investe il progressivo allontanamento dalla natura da una parte e il contemporaneo affermarsi della primazia dell'utile e del sapere economico dall'altra, orizzonti per lui chiusi e sterili e pertanto di crescente infelicità per gli umani.

Nessun messaggio critico dall''800 poteva arrivare sino a noi con tanta sofferta chiaroveggenza. Dalla scrittura in versi e da quella in righe dello Zibaldone, delle Operette morali, dei Pensieri. 

Certo, all'astratto ottimismo dei suoi contemporanei che promettevano un futuro di infinita felicità nel capitalismo incipiente Leopardi oppose un pensiero critico ostile (peraltro ricambiato), ma è sempre lui che scrive nello Zibaldone: "...non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?". (Zibaldone di pensieri,  Milano, 1991, vol.II, p.2297)


lunedì 2 gennaio 2023

diario d'autunno



3 Ottobre
Avrei voglia di scrivere ma ciò cozza con il mio attuale stato, quello che riesco a fare
è solo qualche breve riflessione, magari su FB, il che però mi immette nel luogo che maggiormente mi crea contraddizioni tant’è vero che ci torno ogni tanto per decidere di non farlo più. Avrei voglia di leggere ma ciò cozza ancora con me stante il fatto che i libri li lascio a metà (non tutti). Però c’è il libro sull’epica da mettere insieme e chissà cosa verrà fuori. Poi c’è Piergiorgio che dal suo Diario del Novecento fa il grande intellettuale moralista che è stato e che si lascia leggere. Odio avere impegni. Non so che farmene. Se non ne ho però un po’ li cerco. Stiamo bene a Milano e credo proprio che l’abbuffata di Cinquale ci vorrà ancora un pò per digerirla. Sarà perché non vivo nulla di cogente. La politica mi annoia e in questo momento di guerra che dire? Non sono un intellettuale in questo momento impegnato se mai lo sono stato, sono uomo di lettere un po’ all’antica, di quell’epoca remota mai esistita in cui il prof di lettere era buon artigiano di lettere, sempre sulla soglia di casa, questo sì, con una forte propensione a essere attivo, uscire, fare la spesa, andare in bici, ma anche impegnare le mani, fare buchi nei muri, pittare le porte, magari cucinare. A’ nottata è passata, e dunque che altro c’è da fare? Insomma un letterato pacifico di provincia, Rimini magari anni ’50, non Milano, a Milano c’è la Storia e se studi Storia allora diventi intellettuale ma per scelta fortemente sentita, di quelli impegnati a dire il mondo e magari a capovolgerlo. Bisognava farlo. Ora tutto torna come prima e peggio. Bisognava comunque provarci. Ora via Bellezza parco Ravizza sono di fatto come la mia Rimini vissuta negli anni ’50, anni spensierati, disimpegnati, senza storia, il mare a portata di bicicletta, le ragazze, gli amici di strada, il profumo degli alberi, del mare, le carezze nella loro espressione più innocente. Perché non godere ancora di tutto ciò? La rivoluzione è stata. Tutto domani cambierà. Ma forse no.

7 ottobre 

Non c’è che dire, invecchiare porta con sé posture di ogni tipo. Una mi viene sempre più spesso da notare in certuni che come me si inerpicano sopra gli ottanta. Se dici loro: ho visto…, loro dicono anch’io. Se dici: ho letto… dicono anch’io. Se dici: ho pensato…dicono anch’io. Credo che ne siano profondamente convinti anche se non è vero. L’idea di essersi lasciati sfuggire qualcosa deve essere un tormento, forse ne va la stima per se stessi, devono aver evidentemente, a suo tempo, concertato come supremo obiettivo identitario quello di conoscere, sapere, imparare, avere notizia, avere cognizione, apprendere, intendere, essere informato, essere al corrente, essere certo di tutto quello che gli umani e la natura mettono a disposizione. Un bel fardello da portare. 

Basta leggere e studiare per oggi, ora si va insieme a rigovernare le galline…, mi diceva mia nonna e mi portava con sé nei fondi dove quelle razzolavano.



17 ottobre Milano

oggi  resecare al Galeazzi la pustola sull’occhio alle 15. Tutto qui. 

Meloni e Berlusconi fanno pace, difficile che riescano a far saltare il governo non ancora nato, gli tocca farlo. Che teatro, non si può che ridere perché per quanti danni possa fare ancora questa gente anche se più a destra è l’insieme europeo e mondiale che ci sta addosso, ora anche con  la guerra e la terribile crisi e impoverimento dei poveri e senza lavoro pagato che minacciano tutti i giorni mascherando che è in atto da tempo, felice Europa un corno con tutta la gente che fa la fame e la farà ancora di più. Possiamo solo stare a guardare. Non abbiamo strumenti reali di opposizione ma nemmeno energie acconce.


26 ottobre 

Underdog? Dice Meloni. Non ho problemi, da tempo anche in Parlamento riecheggiano parole anglo/americane. Certo se avesse usato sfavorito, svantaggiato, penalizzato avrei capito subito, invece ho dovuto usare il dizionario. E allora? Allora c'è che il termine, usato con molta passione dalla presidente, ha evocato in me il sogno americano, quello che una ce l'ha fatta ad arrivare impegnandosi allo spasimo contro ostacoli e impedimenti. Chapeau. Tutte le volte che in qualche modo mi arriva quel sintagma, sogno americano, tanto in voga, non posso fare a meno di pensare a chi è rimasto triturato dalle regole spietate del sistema e non ce l'ha fatta. E siccome sono un (ex) prof di estrazione famigliare sgangherata so cosa vogliono dire le favorevoli condizioni di partenza per potercela fare (e siccome il 'merito' c'è già, come dice Cepollaro, non c'è bisogno di rincarare la dose). Molti miei compagni di strada hanno avuto solo la fabbrica come occasione nonostante l'intelligenza brillante (qualcuno è finito pure prete non per vocazione ma perché era l'unico modo per una famiglia di sgravarsi dal peso economico dell'istruzione). Certo, da noi c'è ancora un po' d'inclusione (grazie alle conquiste sociali e politiche degli anni sessanta e settanta) in più ma comunque arrivare trafelati e spremuti alla meta non è sempre buono, a meno di farsene appunto carico da parte del nuovo governo e aprire una grande stagione di spesa per l'Istruzione, non solo per stipendi più dignitosi ai docenti ma soprattutto per garantire a tutti/e uguali condizioni di partenza. Gratuitamente ovviamente, il che non fa sogno americano.

martedì 8 novembre 2022

Di grilli, di guerra. 4 metaloghi di fine estate.



metalogo numero 1

Ormai ci sono, la lunga siepe di alloro è quasi interamente ripulita. Intrecci e viluppi di rovi strappati via insieme al marciume di foglie vizze. Mi manca un ultimo scompiglio di radici, lì cinque o sei grilli si sono spaventati, in due salti sono scomparsi nella siepe.

Solo uno è rimasto su un rametto. Mi fa: "...era ora che ti decidessi eh?! Qui dentro è tutto uno schifo!"

Ho abbozzato. "...va bene ho capito. Ma adesso qual è la morale?"

"Quale morale? La morale non è roba per me, noi non sappiamo cos'è, siete voi umani a farne dalla mattina alla sera, sembra non abbiate niente di meglio da fare..."

" sì, però adesso sei tu che stai facendo la morale e io cosa gli dico ai nipotini? che devono guardarsi dai moralisti che abbondano tra noi ma a quanto pare anche tra voi?"

Non mi ha risposto. Con un salto è scomparso dentro la siepe.


metalogo numero 2

La prima pioggia di settembre col cielo scuro oggi cade silenziosa, la siepe di alloro luccica, dalla grondaia cade un flusso continuo sul fusto della magnolia e sulle rade foglie. Insolita è l’aria fredda.

Non mi resta molto da fare. Anche in cima alla siepe a Nord, là dove fronteggia l’intrusione delle canne, ho già svelto le ultime radici di erbe.

«…bella carneficina eh?!» torna a dirmi il grillo ricomparso tra le foglie.

«…lo so, lo so…anche quelle radici quelle erbe sono vite che elimino. Ma non mi sento male. E’ una contraddizione che non so affrontare» gli dico.

A tratti mi sembra una questione oziosa. Ma o prima o dopo mi tornano in mente i nipotini con la loro rigorosa propensione animalista, ecologica, ecc. Manca cosa alla mia valutazione? Forse siamo tutti bloccati in una dimensione materiale sbagliata. Eppure questa trappola non posso ritenerla un destino. Mi suonerebbe come la condanna per il biblico peccato.

Ho preso il rastrello e ho cominciato ad ammucchiare le foglie secche. Molte erano cadute da sole. Fa freddo ma piove col garbo da giardino.


metalogo numero 3

Insomma fossero queste le contraddizioni da risolvere, mi dico.

«Io però dubbi non ne ho…» aggiunge il grillo « E’ proprio una questione oziosa: la guerra tra le specie è naturale, sai meglio di me che ciascuno di noi è preda e predatore. Qui, dentro la siepe, la guerra tra insetti, affini e tutti gli altri è continua, totale, per sopravvivere ci mangiamo anche tra noi »

«Sull’altro lato della siepe ieri c’era una cavalletta, ti assomiglia…»

« …aiuto, alla larga, parenti serpenti, quelle distruggono tutto dove passano e di me fanno un boccone…»

« La vedi quell’edera che si è così platealmente intrecciata al fusto del pruno? Lo stava soffocando lentamente, infatti quest’anno non ha dato frutti…»

«…meglio, così i corvi girano al largo, altrimenti quando arrivano per beccare ne approfittano per aggredire anche noi…»

«…insomma io l’ho recisa alla base, quello che faceva non mi sembrava né bello né giusto…»

«…ah! prima la morale, adesso il bello, il giusto…Né la moralità, né la bellezza, né la giustizia mi riguardano, sono problemi coi quali voi umani vi complicate la vita, io penso solo a mangiare quanto è più piccolo di me e a guardarmi da quanto è più grosso, come la cavalletta…questa è la nostra guerra, ma a guardare bene mi sembra che assomigli molto alle vostre…»

«…sì, ma voi siete condannati a non avere tregua, noi abbiamo imparato a fare pause…»

«…mah, le pause le faccio anch’io, a me le vostre sembrano sempre più brevi!».


metalogo numero 4

Il sole ha già dissolto la guazza nel prato, la luce sembra mettere in tensione la siepe di alloro, il pruno, le canne a Nord e le rose. La giornata chiama altrove, sto ormai tirando per le lunghe le mie rifiniture. Ho concluso con lui sbrigativo:

«…secondo questo ragionare dunque noi tutti animali siamo destinati alla guerra per l’eternità, almeno finché qualcosa non ci incenerisca tutti…»

« …chissà…, ora ti lascio, devo procurarmi cibo e un po’ di tranquillità per suonare le mie zampe e attirare le grille…, la vita continua…»

«…mi fermo anch’io, prima che sia necessaria una nuova pulitura ci vorranno mesi…»

Ho strappato un ultimo ramo di rovo spinoso e poi ho riposto in un angolo le cesoie, il rastrello e i guanti. Lui ha sostato un attimo rivolto verso di me poi con l’ultimo salto è scomparso nel folto della siepe. Non aveva un’aria molto felice. Nemmeno io.




domenica 2 ottobre 2022

Riflessioni di fine estate. Milano ottobre '22

2 ottobre 

Avrei voglia di scrivere ma ciò cozza con il mio attuale stato, quello che riesco a fare è solo qualche breve riflessione su FB, la qual cosa mi immette nel luogo che maggiormente mi crea contraddizioni tant’è vero che ci torno per decidere di non farlo più. Avrei voglia di leggere ma ciò cozza ancora con me stante il fatto che i libri li lascio a metà (non tutti). Però c’è l’epica da mettere insieme e chissà cosa verrà fuori. Poi c’è Piergiorgio che dalle sue righe fa il grande intellettuale moralista che è stato e che si lascia leggere. Odio avere impegni. Non so che farmene. Se non ne ho però un po’ li cerco. Stiamo bene a Milano e credo proprio che l’abbuffata di Cinquale ci vorrà ancora un pò per digerirla. Sarà perché non vivo nulla di cogente. La politica mi annoia e in questo momento di guerra che dire? Non sono un intellettuale, in questo momento, impegnato, se mai lo sono stato, sono uomo di lettere un po’ all’antica, di quell’epoca remota mai esistita in cui il prof di lettere era buon artigiano di lettere, sempre sulla soglia di casa, questo sì con una forte propensione a essere attivo, uscire, fare la spesa, andare in bici, ma anche impegnare le mani, fare buchi nei muri, pittare le porte, magari cucinare. A’ nottata è passata, e dunque che altro c’è da fare? Insomma un letterato pacifico di provincia, Rimini magari anni ’50, non Milano, a Milano c’è la Storia e se studi Storia allora diventi intellettuale ma per scelta fortemente sentita di quelli impegnati a dire il mondo e magari a capovolgerlo. Bisognava farlo. Comunque provarci. Ora via Bellezza parco Ravizza sono di fatto come la mia Rimini vissuta negli anni ’50, anni spensierati, disimpegnati, senza storia, il mare a portata di bicicletta, le ragazze, gli amici di strada, il profumo degli alberi, del mare, le carezze nella loro espressione più innocente. Perché non godere tranquillamente di tutto ciò? La rivoluzione è stata. Tutto domani cambierà. Ma forse no.

sabato 10 settembre 2022

freddo in arrivo

...l'emozione degli anni. Sempre più intriganti, complessi, ricchi di belle cose, relazioni, situazioni, atterraggi, divincolamenti, connessioni impreviste, come talora la medusa che sfiori in acqua.

L'estate sta finendo, il freddo maggiore mi verrà non dalle restrizioni nell'uso delle varie forme di energie ma dall'esito delle elezioni.

Ho pigramente sfogliato i 25 punti del programma  dei Fratelli d'Italia, letti sulla rete. Fatti salvi cinque o sei che potrebbero allarmare (ma non tanto) i progressisti tutti gli altri suonano generici abbastanza da permettere di smentirne l'unico apparente senso una volta al governo. Hanno tutti una discreta dose progettuale di stato sociale che non vedo come potrebbero segnare una grande differenza coi progressisti. Volendo uno può tranquillamente dire che quei 25 punti fanno tanto stato sociale mussoliniano. In fondo i nostri vecchi dicevano che Mussolini aveva fatto un solo errore, quello di allearsi coi nazisti e entrare in guerra.

Qualunque sia l'esito l'egemonia dell'economia e della finanza graverà su di noi più che nel passato, anche ma non solo a causa della guerra. Eppure avremo bonus e supporti e quant'altro. Mica che non va bene, è che concentra l'attenzione sulla sopravvivenza dignitosa. Quando cioè l'accesso ai consumi alti, compresi cinema, teatro, libri, ristorante fuori porta verrà riservato a fasce precise di popolazione.

domenica 4 settembre 2022

Di grilli e di altro. I primi due metaloghi.

 metalogo numero 1

Ormai ci sono, la lunga siepe di alloro è quasi interamente ripulita. Intrecci e viluppi di rovi strappati via insieme al marciume di foglie vizze. Mi manca un ultimo scompiglio di radici, lì cinque o sei grilli si sono spaventati, in due salti sono scomparsi nella siepe.
Solo uno è rimasto su un rametto. Mi fa: "...era ora che ti decidessi eh?! Qui dentro è tutto uno schifo!"
Ho abbozzato. "...va bene ho capito. Ma adesso qual è la morale?"
"Quale morale? La morale non è roba per me, noi non sappiamo cos'è, siete voi umani a farne dalla mattina alla sera, sembra non abbiate niente di meglio da fare..."
" Sì, però adesso sei tu che stai facendo la morale e io cosa gli dico ai nipotini? che devono guardarsi dai moralisti che abbondano tra noi ma a quanto pare anche tra voi?"
Non mi ha risposto. Con un salto è scomparso dentro la siepe.


metalogo numero 2

La prima pioggia di settembre col cielo scuro cade silenziosa, la siepe di alloro luccica, dalla grondaia cade un flusso continuo sul fusto della magnolia e delle rade foglie. Insolita è l’aria più fredda.
Non mi resta molto da fare. Anche in cima alla siepe, là dove fronteggia le canne, ho già svelto le ultime radici di erbe infestanti.
«…bella carneficina eh?!» torna a dirmi il grillo ricomparso tra le foglie.
«…lo so, lo so» gli dico ‹‹…anche quelle sono vite che elimino. E’ una contraddizione che non so affrontare».
Come faccio a spiegarglielo. A tratti mi sembra una questione oziosa. Ma o prima o dopo mi tornano in mente i nipotini con la loro rigorosa propensione animalista, ecologica, ecc. Manca cosa alla mia valutazione? Oppure siamo tutti bloccati in una dimensione materiale sbagliata. Ma ho una resistenza cui non rinuncio, questa trappola non è ‘naturale’. Mi suonerebbe molto come la condanna per il biblico peccato. Come l'abbiamo realizzata, così dobbiamo poterne uscire.
Ho preso il rastrello e ho cominciato ad ammucchiare le foglie secche. Molte erano cadute da sole. Fa freddo ma piove col garbo da giardino.

sabato 16 luglio 2022

Il giardiniere dello Zibaldone (Bologna, 1826). C'è del lavoro da fare.



 Ogni volta che metto mano al roseto o alle siepi di alloro, cercando di estirpare le piante parassite,  mi torna in mente il famoso giardino di Leopardi nello Zibaldone. Lì dentro c'è un'aporia, perlopiù ignorata perché sarebbe un leggero ma significativo scostamento dalle immagini consuete che abbiamo di Leopardi dopo duecento anni che lo si legge. 

In quel giardino la guerra tra le varie specie è totale per cui la souffrance, l'infelicità, è totale. Persino il giardiniere estirpa vite, strappa via, uccide, egli infatti "...va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro". La frase chiude il passo dello Zibaldone, datato Bologna, 19 aprile 1826. Già. Quel giardiniere, apparentato per natura a tutte le altre specie in guerra mortale fra loro, in realtà è una presenza più problematica di quanto il poeta non voglia. Leopardi sorvola sul fatto che  quell'esemplare di Sapiens, a differenza delle altre specie, in quel giardino fa un lavoro, verosimilmente sotto padrone. Tronca vite per guadagnarsi la pagnotta, e qui in qualche modo può essere assomigliato alle altre specie che uccidono per sopravvivere ma fa anche qualcosa in più, lavora per rendere più gradevole il giardino. Nessun'altra specie può fare né l'una né l'altra cosa, lavorare sotto padrone, rendere gradevole il giardino. 

A prima vista sembrerebbe dunque che anche la specie umana sia inesorabilmente partecipe di quella guerra tra forti e deboli cui la natura, madre matrigna, destina ogni forma di vita. Ma il genere umano ha una chance in più. Leopardi lo sa bene. Ma qui gli premono troppo le sue premesse materialiste, vuole metterci con le spalle al muro e convincerci che l’esistenza è destinata all’infelicità. Eppure quella frase finale della sua pagina di diario è una nota di ottimismo che apre a una condizione particolare che appartiene solo al genere umano. C’è del lavoro da fare. Per rendere meno infelice per sé e per gli altri l’universo, per rendere più utile per sé e per gli altri la materia. Quello del giardiniere è il lavoro che, preservando un certo ordine nel caos distruttivo del giardino, dona a noi un attimo di sospensione dal male dilagante, ci offre un po’ di bello in godimento,  una pausa contro l’infelicità. Leopardi lo sa bene perché è quello che infatti pensa della poesia, del lavoro del poeta. “Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de' versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. “(Feb. 1829, Zibaldone).

Quello a dire il vero è l’unico lavoro che Leopardi concepisce. L’altro, quello ‘utile’ in generale, quello che gli umani scambiano tra loro, lo inorridisce un po’ per quanto si sta diffondendo nella vita comune. A Firenze una volta butta giù una bozza di programma per una rivista che doveva avere come compito, oltre quello di piacere alle donne, di fare guerra all’utile. Ce l’aveva con i suoi amici liberali fiorentini che progettavano un’economia tutta basata su quell’utile che non lasciava spazio a fantasia e immaginazione

La sopravvivenza, certo. Lui sa bene, ora e già, cosa significa lavorare da salariato.  Essendo un nobile spiantato, per liberarsi dalle catene familiari e mantenersi dovette adattarsi al lavoro, cosa che fece inorridire il padre. Lavorò, di stanza perlopiù a Bologna, per l’editore milanese Stella con mansioni simili a quelle di direttore di collana. In più dava ripetizioni e traduceva. Il suo epistolario nel rigido inverno bolognese del ’26 gronda di improperi per quella vita alienata. E non era più ormai perché mancava di mezzi. Al fratello scrive che ora con quei lavori passa addirittura per ricco. E non era neanche perché ora da single doveva provvedere personalmente a tutti i bisogni quotidiani fuori com’era da tutte le cure in casa Recanati. Il problema era un altro. Si era emancipato dalla famiglia ma non scriveva un verso. Alla lunga, piegato anche dai malanni, dovette tornare a casa. A entrare nello scambio organizzato di prestazioni da lavoro entrava dentro una guerra simile a quella del giardino con quel giardiniere sullo sfondo ma senza produrre gran che di bello, solo pochi irrisolti versi. Uscirà poi definitivamente da casa proprio grazie a quegli amici fiorentini che seppero procurargli una sorta di vitalizio a Firenze con cui riuscì anche a pubblicare i Canti. 


C’è un lavoro da fare. E’questo che suggerisce quel giardiniere. Ma oltre al lavoro per rendere più gradevole il nostro infelice soggiorno in vita ce n’è anche un altro. Rendere meno infelice la nostra permanenza in vita è possibile, staccarsi dalla natura matrigna, darle scacco, schiacciarla nella sua natura prima e puntare a una seconda natura. La specie umana, conferma il poeta, a differenza delle altre, è l’unica in grado di fare ‘civiltà’, di avanzare in un vero progresso. Ma c’è un lavoro serio da fare, rinunciare alla guerra tra noi, operare al contrario per la formazione di una confederazione umana che operi per sostenere gli uni e gli altri, una ‘social catena’ che  “…tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune.” 


Sarà il messaggio del poeta al termine della sua vita, quella de "La ginestra o il fiore del deserto".



martedì 12 luglio 2022

"...pianzotto pestapevere co' l'oio de bacalà te misi la polenta per il povero soldà." Pestavano spezie e ci lacrimavano dentro in quella antica fabbrica

Dalla mia infanzia triestina del dopoguerra la memoria mi rimanda ogni tanto (i nipotini!) una filastrocca che suona così: pianzotto pestapevere co' l'oio de bacalà te misi la polenta per il povero soldà. La filastrocca ha un risvolto di classe, pestavano spezie certi operai e ci lacrimavano dentro in una nota fabbrica triestina. Certo tutti gli adulti o quasi da cui ero circondato a fine anni '40 erano operai e avranno avuto motivi cogenti per tenere alla larga mocciosi piagnucolosi. Non c'era tempo. Mio zio che lavorava nel porto, amava moltissimo il figlioletto nato da seconde nozze ma erano ceffoni se partiva col piagnucolio. Di quella infanzia la memoria mi rimanda  anche altro, soprattutto le immagini legate alla guerra. Gli strilli delle sirene, le scale scese a precipizio, i vetri in frantumi, l'oscurità del rifugio sotto casa, il fango del tunnel dove riparavamo. Da adulto, pur trascurando di chiedermi cosa avevo a che fare con polenta e baccalà per il povero soldato, ho fatto comunque un po' di conti.  Era evidente che quel rimproverare e sbeffeggiare il pianto dei bambini, non solo il mio, era una pressione educativa perché smettessero appunto di fare i bambini e si comportassero un po' di più da adulti. Bisognava lavorare. Non c'era tempo per pensare che spesso il pianto dei bambini è dovuto al loro sentirsi incapaci di rispondere alle aspettative degli adulti, di fare bene quello che vogliono ma appunto soprattutto quello che loro si aspettano, perché sappiamo anche che una gran parte dei messaggi educativi arrivano loro non dall'intervento diretto ma dai comportamenti, dai modi di fare, dai gesti spontanei.  

La mia generazione ha avuto meno bambini/e piagnucolosi/e, vuoi per un relativo benessere di massa dovuto al fatto che il lavoro non mancava come oggi, vuoi perché il conflitto generale di classe tra operai e capitale, culminato nelle lotte degli anni settanta, aveva determinato una redistribuzione più giusta dei carichi di lavoro e della ricchezza, vuoi perché il clima generale di analisi critica che investiva tutto il mondo aveva aumentato di molto le consapevolezze di tutte/i. C'era un po' più di tempo per ascoltare. E più allegria.

Dubito che bambini/e piagnucolosi/e di oggi finiranno per mescolare polenta per i soldati anche se la guerra è qui vicino. Certamente i governi non permetteranno che ciò accada. Il loro mandato semmai è quello di garantire ai benestanti per primi e ovviamente a tutti i ricchi attuali e ai loro bambini, maschi e femmine, grosso modo lo stato attuale. Aumenteranno invece, per equilibrare in stato di crisi permanente l'accesso di classe ai consumi migliori, disoccupati e/o working poors di tutti i generi i cui figlioli non avranno tempo per piagnucolare. Ad essi forse non mancheranno nemmeno i giochi luccicanti della nuova tecnologia, solo che al pari di tutte le altre necessità materiali, dal cibo ridotto a spazzatura, alla sanità e alla sicurezza rese nulle, saranno da usa e getta, al pari della loro fanciullezza.



giovedì 23 giugno 2022

La notizia del giorno

 Oggi 23 giugno, la politica generale è irrisoria e irridente, nulla nulla. La guerra durerà un bel po’, è chiaro che la preparavano da tempo. La notizia del giorno è la riunione dei BRICS in Cina, questa è politica.

L'integrazione dell'Italia nella UE (ma anche nella NATO) permette di dire che i nostri mali economici e politici sono inegralmente dovuti al sistema capitalistico (neoliberale), ma sarebbe ingenuo dire che non ci mettiamo dentro anche le nostre insufficienze culturali, politiche, economiche e morali. Per queste abbiamo un'eredità storica che risale al Medio Evo. 'Il nostro Medio Evo' ho esclamato ieri vedendo la prima parte del serial di Marco Bellocchio dedicato a Moro e BR! Vedere raffigurati con fantasia creativa molto vicina alla verità certi comportamenti dei massimi esponenti della nostra cultura politica di quegli anni è stato anche deprimente, perché mi sono chiesto se le incapacità e le paranoie ridicole di quei politici - anche religiosi perché il cilicio sanguinolente di Paolo VI è da brividi - al netto delle responsabilità attribuibili al nostro sistema economico, politico e morale non siano poi quelle che infestano tuttora le menti degli attuali. Il nostro lungo Medio Evo.

giovedì 31 marzo 2022

Noi complessisti

 

La bella scrittura di Donatella Di Cesare che aiuta a comprendere la complessità del nostro presente


https://www.ilfattoquotidiano.it/.../armiamoci-e.../6543092/


NOI COMPLESSISTI.
Oggi il mio articolo su Il Fatto quotidiano - Si dimentica spesso che la parola propaganda non vuol dire solo diffondere, ma anche consolidare, fissare. Tutto deve essere ricondotto a schieramenti e fronti, ridotto a principi e dogmi. Guai a farsi domande, esibire incertezze! Perché la propaganda perlustra, seleziona e discrimina. Tanto più se, come durante questa nuova guerra mondiale del XXI secolo, è intenzionalmente militarista.
Non è un caso che ogni discorso debba iniziare – pena l’espulsione perpetua dallo spazio pubblico – con l’autodafé ormai celebre: “c’è un aggressore e un aggredito”. Questo è il fatto oggettivo, il “ragionamento basico”, che deve essere riconosciuto coram populo. L’autodafé, meglio se pronunciato con tono contrito, è il certificato temporaneo di anti-putinismo, il lasciapassare per potersi esprimere nel mondo della libertà di parola. Questo salvacondotto, tuttavia, dura poco e basta anche solo un “perché” o un “come mai” per finire di nuovo proscritti o diventare bersaglio in vario modo del furore bellicista.
Il deteriorarsi del dibattito pubblico nelle democrazie occidentali non è un fenomeno di oggi. Lo aveva già scorto Leo Löwenthal, esponente della Scuola di Francoforte, che con acume analizzò l’America degli anni Cinquanta, dove disagio e disorientamento avrebbero aperto le porte non solo al maccartismo, ma anche all’ascesa di una destra autoritaria. Di recente questo fenomeno si è acuito al punto che si parla di “grande regressione” per indicare brutalità e rozzezza che imperversano nella sfera pubblica. La bolla di internet non ne è il motivo, ma contribuisce all’odio aperto, alle fantasie di violenza, agli insulti osceni.
La guerra – si sa – è rivelatrice. Fra l’altro ha messo in luce, ancor più della pandemia, questa regressione che mina al fondo la democrazia rischiando di cancellarla. La violenza schematica sta già nel voler stabilire l’inizio, nel fissare il principio. Meglio, poi, se è tutt’uno con il Male impenetrabile. “La violenza putiniana che viene dal cielo…”. C’è uno fuori di testa, un matto, un folle oppure – e propagandisticamente è lo stesso – un tiranno, un dittatore, che ha deciso di dirottare il corso storia umana, le sue magnifiche sorti. Guai a interrogarsi su quel principio, ad andare oltre guardando al contesto, provando a esaminare le cause. È pericoloso, anzi ambiguo e infido, già quasi un cedimento al male, un compromesso con il nemico. Mica risaliamo a chissà quando! In tutta tranquillità si può ignorare il “resto”, perché quel che conta è solo sentirsi nel giusto. C’è il male e il bene, l’autocrate e le democrazie, la repressione e la libertà. Ringrazia piuttosto di essere da questa parte, perché dall’altra saresti già in galera. E dunque taci! Smetti di fare domande fastidiose e riconosci il fatto oggettivo che in sintesi è: A ha invaso B. Punto. Altrimenti detto: il grosso ha picchiato il piccolo. E tutti non potranno fare a meno di essere con quest’ultimo.
In questa nuova concezione della storia che, alla faccia di Hegel, ben si adatta alla foga regressiva, non c’è assolutamente nulla da capire. C’è appunto solo da allinearsi nell’ordine bellico, favorito da schemi ideologici. Non vorremmo certo che la gente discuta le cause della guerra mondiale nel cuore dell’Europa, che le conosca davvero! Tutt’al più si possono buttare lì un paio di paragoni perché si senta sollevata: Putin = Hitler, combattenti ucraini = partigiani italiani, ecc. Non importa se la storia non sia quella novecentesca, se la potenza nucleare muti il significato stesso di guerra. Viva la pigrizia mentale condita di malafede. La semplificazione investe anche l’interlocutore che ha comunque torto e va perciò delegittimato a priori. Anche qui non c’è nulla da capire. Sarà tutt’al più un neneista di sinistra. Dice sciocchezze e amenità. Merita sarcasmo, scherno, se non disprezzo, astio, aggressività. Da tempo il livore anti-intellettuale non emergeva in forma così esasperata. Poi magari c’è chi rimpiange “gli intellettuali di una volta”, anche perché non sono qui a importunare.
In tutto questo non stupisce che perfino la “complessità” sia stata presa di mira e sia, anzi, assurta a stigma. Come se si trattasse di un esercizio inutile o di una confusione pretestuosa. Eppure, sappiamo che uno dei grandi pericoli oggi è, al contrario, la semplificazione, la scorciatoia (come quella complottistica) per venire a capo di un mondo difficile da interpretare. Non è più la natura a essere impenetrabile, ma è ormai la storia umana a divenire per noi sempre più enigmatica. Si è spezzato il filo della narrazione. Di qui l’ansia per il futuro che non è mai stato così incerto. La reazione, però, non può essere quella dei nostalgici di una leggibilità del passato. Mai come ora è necessario quel che la tradizione occidentale ci ha insegnato: dalla domanda di Socrate, che proprio salvaguardando la democrazia metteva in forse le certezze dei suoi concittadini, fino al sospetto di Marx, di Nietzsche, di Freud, che vuol dire meno falsa coscienza, più avvedutezza. Studio, interpretazione, giudizio sono la base della democrazia. Non servono solo gli esperti, che peraltro non sono mai neutrali. Altrimenti tutti i cittadini sarebbero deresponsabilizzati nelle scelte politiche – come l’invio di armi – che li riguardano direttamente. Occorrono invece le domande, e tanto più se sono spiazzanti, perché ci aiutano a cambiare prospettiva, a vedere quel che accade sotto una nuova angolazione trovando magari la via d’uscita dalla trappola.
Un computer è un meccanismo complicato; qualcuno l’ha progettato e aprendolo si può veder l’intreccio di parti. La storia umana è invece complessa, perché agiscono molte dimensioni. Applicare gli schemi A – B è grottesco. L’illeggibilità del mondo, di cui parlava Hans Blumenberg, è oggi sotto gli occhi di tutti. Gridare “all’armi” limitandosi a mettere l’elmetto sulla mente, come fanno alcuni, non serve davvero. Non abbiamo bisogno di paraocchi, ma di confronto aperto, dibattito critico, spazi interpretativi comuni. Questi sono i valori democratici occidentali.
Noi complessisti cerchiamo di farcene carico in questo momento grave in cui vengono richieste solo adesioni empatiche alla guerra. La libertà di pensiero è il diritto alla complessità. Anche il diritto di comprendere il male, di decostruirlo, senza per questo giustificarlo. Certo, poi riconosciamo di essere pur sempre complessisti molto imperfetti, non abbastanza vigili, non sempre capaci di capire. Ma se ci fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre in corso avrebbero potuto essere evitate.